Tanti, tantissimi materiali e moltissimi rifiuti e CO2. Anche se un po’ grossolana, questa potrebbe essere una sintesi efficace delle performance ambientali del settore dell’edilizia.
Dei 100 miliardi di tonnellate di materiali consumati ogni anno nel mondo il settore delle costruzioni ne usa, infatti, una quarantina e, se si restringe lo sguardo sull’Europa, si vede che gli edifici sono responsabili di più del 40% dei consumi di energia primaria e del 36% delle emissioni di CO2.
In aggiunta, la produzione del cemento, che da sola genera il 3% delle emissioni globali, resta ancora oggi una delle attività più difficili da decarbonizzare.
Oltre all’applicazione dei principi dell’economia circolare, che sempre più ispira il lavoro di progettisti e costruttori, dalle prime fasi in studio fino al cantiere e all’eventuale demolizione, e all’utilizzo massiccio delle fonti rinnovabili e delle tecnologie per l’efficienza e il risparmio, uno degli ambiti più promettenti per ridurre gli impatti dell’edilizia è quello dei materiali.
Lo conferma anche una ricerca condotta da Allied Market Research, secondo cui il mercato dei cosiddetti Alternative building material, stimato in circa 190 miliardi di dollari nel 2020, potrà arrivare a 330 nel 2030, con una crescita complessiva del 74%.
Tra questi materiali alternativi rientrano prima di tutto i biomateriali, elementi costruttivi usati fin dall’antichità, ma riadattati alla luce delle nuove possibilità offerte dall’innovazione tecnologica.
Oltre alle applicazioni più conosciute – come, per esempio, i mattoni di canapa e calce o di paglia e lana, che danno prestazioni eccellenti in termini di isolamento termoacustico – si guarda con crescente interesse ai funghi e in particolare ai loro miceli, le strutture reticolari che costituiscono il corpo vegetativo del fungo stesso.
Il micelio può, infatti, sostituire le schiume plastiche che servono per isolare ermeticamente edifici e abitazioni, ed essendo biodegradabile si decomporrà una volta terminato il suo ciclo di vita.
Ancora la natura e, più precisamente i batteri, è l’ispiratrice degli esperimenti sul calcestruzzo rigenerante: quando si forma una crepa, a contatto con l’aria o con l’acqua i batteri producono cristalli di calcite che vanno a chiuderla.
L’obiettivo è quello di consumare meno materiali e ridurre i costi per le manutenzioni degli edifici. Un altro approccio è quello che punta a realizzare strutture più resistenti all’usura e agli agenti atmosferici, per esempio mescolando al cemento elementi in fibra di carbonio o persino in grafene.
Sono, poi, in corso sperimentazioni sull’uso della stampa a 3D, sia per i mattoni sia per gli elementi strutturali, che vengono realizzati e poi assemblati velocemente in fase di cantiere e sui materiali a cambiamento di fase, vale a dire materiali le cui proprietà cambiano in funzione delle variazioni del contesto.
Un esempio su tutti i vetri termoregolatori, che nei periodi più caldi diventano opachi e mantengono un ambiente più fresco, o al contrario, nei momenti freddi diventano traslucidi, permettendo alla luce e al calore di entrare nell’edificio.
Ma c’è un settore che, se possibile, potrebbe accelerare ancora di più il ritmo dell’innovazione tecnologica. È un settore che sfrutta l’aumento delle capacità computazionali dei computer e i miglioramenti nei sistemi di machine learning e di intelligenza artificiale per simulare un gran numero di materiali possibili e le loro caratteristiche, selezionando quelli più promettenti in funzione dell’utilizzo previsto.
Tra gli esempi più recenti, uno studio condotto da Giovanni Trezza, Luca Bergamasco, Matteo Fasano ed Eliodoro Chiavazzo del Politecnico di Torino e pubblicato su Nature Computational Materials ha dimostrato come l’intelligenza artificiale possa essere utilizzata per generare un’enorme quantità di nuovi possibili materiali per lo stoccaggio dell’energia.
Questi materiali, denominati reticoli metallorganici (Mof), presentano una struttura cristallina in grado di “intrappolare” altre molecole e, quindi, la loro energia. La ricerca si è, quindi, focalizzata sullo sviluppo di una tecnica per scegliere i migliori materiali che massimizzano il calore quando intrappolano l’acqua.
Con risultati davvero entusiasmanti, considerato che gli algoritmi sviluppati hanno dimostrato una potenziale accelerazione del 90% nella scoperta di materiali innovativi per l’accumulo termico.
La metodologia e gli strumenti sviluppati possono essere impiegati anche per valutare le prestazioni dei materiali per altre applicazioni come, per esempio, la cattura dell’anidride carbonica dall’atmosfera oppure il recupero di acqua dall’umidità dell’aria in zone aride.