24 Aprile 2024
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animali e crisi climatica

Animali: è corsa all’adattamento climatico

Gli animali si adattano alle trasformazioni dei loro habitat innescate dalla crescente pressione antropica e dalla crisi climatica. L'uomo si conferma la specie che più di ogni altra modifica gli ecosistemi. Nel bene, quando riesce a far crescere delle popolazioni di animali selvatici, ma anche nel male, quando, come succede in Lombardia, pretende di continuare a cacciare a danno di una biodiversità sempre più a rischio

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Come reagiscono le specie selvatiche alla crescente presenza degli esseri umani nelle aree di montagna? È questa la domanda a cui ha cercato di rispondere un gruppo di ricercatori del Muse (Museo delle Scienze di Trento) e dell’Università di Firenze, che hanno presentato i risultati di una ricerca condotta a partire dal 2015 in un’area delle Dolomiti del Trentino occidentale molto frequentata da escursionisti e turisti.

Le montagne, anche nel nostro Paese, sono infatti interessate da due dinamiche che stanno generando opportunità e problemi allo stesso tempo. Da un lato, l’abbandono delle pratiche di agricoltura e pastorizia ha ridotto moltissimo la presenza degli insediamenti stanziali, portando a una rigenerazione delle foreste e al loro ripopolamento da parte di molte specie di mammiferi.

D’altro canto, quelle stesse montagne sono sempre più meta di turisti in cerca di un contatto con la natura: se questo può essere positivo per le comunità montane, che trovano opportunità e nuove fonti di reddito, rischia però di disturbare gli animali che vivono in aree in precedenza ignorate dagli esseri umani e che adesso vengono percorse da escursionisti, più o meno silenziosi e rispettosi.

Lo studio, dal titolo Crowded mountains: Long-term effects of human outdoor recreation on a community of wild mammals monitored with systematic camera trapping e pubblicato su Ambio, si è avvalso di una sessantina di fototrappole che hanno registrato il passaggio di uomini e di otto specie animali (orso, cervo, camoscio, capriolo, tasso, volpe, lepre e faina) nei boschi del Trentino occidentale.

I ricercatori hanno rilevato che la presenza umana di fronte alle fototrappole è stata sette volte superiore a quella della volpe, la specie selvatica più comune nell’area, e addirittura 70 volte superiore a quello dell’orso, la specie meno fotografata.

Tutte le specie considerate hanno mostrato una chiara risposta comportamentale al disturbo provocato dal passaggio delle persone: nelle zone più frequentate sono diventate più notturne, così da diminuire la probabilità di incontrare persone e le specie più grandi, come l’orso, il cervo e il camoscio, evitano di frequentare le zone in cui il passaggio umano è più intenso.

Dalla ricerca, che ha evidenziato come questi cambiamenti nel comportamento abbiano un costo in termini di maggiori difficoltà di movimento, con una regolazione non ottimale della temperatura corporea e l’utilizzo di aree meno produttive in termini di risorse alimentari, sono emerse anche indicazioni preziose per facilitare la convivenza tra gli umani e le altre specie.

Servirebbero infatti misure per limitare l’accesso ad alcune aree dei parchi naturali nei periodi dell’anno più delicati per la fauna, una strategia questa già ampliamente applicata in molte parti del mondo.

Proprio dall’estero, più precisamente dall’area nord occidentale dell’Arabia Saudita, arriva un esempio che (auspicabilmente) potrebbe essere replicato altrove. La Royal Commission for AlUla (Rcu) ha infatti avviato un massiccio programma di reintroduzione di 1.580 esemplari di quattro specie diverse (gazzelle arabe, gazzelle del deserto, orici arabi e stambecchi nubiani) in tre riserve naturali dell’area – AlUla Sharaan, Wadi Nakhlah e AlGharameel.

L’operazione è stata resa possibile grazie alla formazione di zone di conservazione per la vegetazione autoctona, allo sviluppo di nuove infrastrutture, tra cui recinti di quarantena e al monitoraggio dei rilasci attraverso collari a localizzazione satellitare, fototrappole e il lavoro dei ranger.

Come indicato dalle linee guida della International Union for the Conservation of Nature, il monitoraggio successivo al rilascio è infatti essenziale per qualsiasi programma di reintroduzione: gli animali rilasciati in Arabia Saudita vengono seguiti con software dedicati, fototrappole e collari di localizzazione satellitare.

È la prima volta che i collari, leggeri e alimentati a energia solare, vengono utilizzati per le specie di ungulati nella regione. Il miglioramento dei sistemi di monitoraggio migliorerà la comprensione dell’equilibrio all’interno dell’ecosistema, consentendo rilasci futuri e una migliore gestione dell’habitat naturale degli animali.

L’obiettivo è quello di arrivare a creare un’area protetta estesa per oltre 12.000 km/quadrati, un’area più grande del Libano, in cui reintrodurre, entro il 2030, il leopardo arabo, un predatore apicale gravemente minacciato di estinzione.

Per una situazione che migliora, ce n’è invece un’altra che ancora fatica. Stiamo parlando della Lombardia, in cui le politiche di protezione della fauna selvatica si devono confrontare con le pressioni esercitate dai cacciatori, che nonostante siano una minoranza della popolazione (lo 0,5%) continuano a condizionare la politica regionale.

Diverse associazioni hanno fatto di recente sentire la loro voce davanti al Consiglio regionale per chiedere l’approvazione del Piano faunistico, obbligo di legge tuttora disatteso e per tenere alta l’attenzione su proposte che circolano con insistenza come la caccia in deroga ai piccoli uccelli protetti, la riapertura degli impianti di uccellagione e la richiesta di fermare l’attività antibracconaggio dei Carabinieri Forestali nelle valli della provincia di Brescia e Bergamo, uno dei più importanti black-spot della caccia illegale del bacino del Mediterraneo.

Tutte misure che, se approvate, metterebbero in grave pericolo sia la fauna selvatica sia la salute umana, considerato che si stima che ogni anno tra le 1.400 e le 7.800 tonnellate di piombo vengano rilasciate nell’ambiente durante l’attività venatoria solo nelle Zone Umide europee.